Fratture Vertebrali
FRATTURE VERTEBRALI
Vi proponiamo qui un'intervista rilasciata dal nostro Direttore all'associazione MaMOG (mamme con osteoporosi gravidica), di cui è referente nazionale, a proposito dell'inquadramento diagnostico-terapeutico delle fratture vertebrali.
Chi è il fisiatra? E che differenza c’è tra fisiatra, fisioterapista e ortopedico?
Il Fisiatra è un Medico Chirurgo, specializzato in Medicina Fisica e Riabilitativa, che lavora nell’ambito specifico della riabilitazione, ossia la restitutio ad integrum dei sistemi neuro-motori del paziente all’interno di parametri fisiologici o para-fisiologici, qualunque sia la sua problematica e la sua condizione iniziale. Ci sono diversi ambiti della riabilitazione: quello neurologico, quello muscolo-scheletrico, che è poi il mio ambito specifico, l’ambito respiratorio, cardiologico, oncologico. Le pazienti con osteoporosi gravidica avranno appunto il supporto del Fisiatra specializzato nell’ambito muscolo-scheletrico, meglio se esperto in patologia vertebrale.
Fisiatra e fisioterapista sono figure diverse che collaborano in team. Il Fisiatra è il medico che progetta in toto il piano riabilitativo, identificando gli obiettivi della riabilitazione e trasmettendoli al fisioterapista; il fisioterapista coadiuva il fisiatra nel mettere a punto l’elaborazione concreta di questo piano di riabilitazione, ne comprende il linguaggio e gli obiettivi, insieme al fisiatra li traduce in esercizi adeguati agli obiettivi da raggiungere ed è la figura che affianca il paziente step by step durante il percorso riabilitativo. L’ortopedico, invece, in genere è il medico che interviene qualora non basti un approccio conservativo, ma serva un intervento chirurgico. È l’ortopedico il chirurgo che interverrà sulla schiena della paziente con osteoporosi gravidica. Una figura alternativa all’ortopedico è quella del neurochirurgo: a seconda del tipo di problematica vertebrale e di intervento necessario, sarà o il neurochirurgo o l’ortopedico (chirurgo vertebrale) a fare l’intervento chirurgico.
La paziente nel suo percorso incontrerà il fisiatra in ogni caso: sia che basti un approccio conservativo, sia che serva un intervento chirurgico. Nel primo caso, il compito del fisiatra sarà quello di insegnare alla paziente a “guidare” la biomeccanica della sua “nuova” schiena. Qualora invece la chirurgia sia ritenuta indispensabile, il fisiatra interverrà dopo il chirurgo per garantire un’adeguata riabilitazione post-intervento. L’obiettivo del fisiatra sarà quello di portare la paziente alla condizione più equilibrata possibile dopo gli eventi traumatici causati dall’osteoporosi gravidica.
Cosa può fare il fisiatra per chi ha subito fratture vertebrali da fragilità?
Può fare molto dal punto di vista riabilitativo, perché può condurre il paziente a una gestione della colonna vertebrale che sia il più corretta possibile nell’ambito biomeccanico – ossia del funzionamento meccanico della colonna vertebrale. E’ probabile che un paziente che ha avuto una frattura vertebrale non avesse o non avesse sufficientemente una buona meccanica della colonna già prima della frattura, perché è proprio questa fragilità funzionale e strutturale globale a esporlo maggiormente al rischio fratturativo, cui già lo espone la fragilità intrinseca del tessuto osseo.
Una meccanica non ottimale del movimento è abbastanza comune e normale: la macchina meravigliosa che è il nostro corpo sa come compensare però eventuali disequilibri strutturali. Tuttavia, se improvvisamente accade qualcosa che rompe quell’equilibrio di compenso, come ad esempio un’osteoporosi massiva quale è l’osteoporosi gravidica, ecco che il sistema di compensazioni si incrina e può accadere una frattura da fragilità. Come può infatti esserci una frattura in assenza di traumi ma col semplice, normale movimento, come è tipico delle fratture patologiche da fragilità? Proprio perché quel movimento è compiuto con una biomeccanica alterata e dunque non funzionale ed adeguata.
In caso di osteoporosi, quindi, è assolutamente necessario apprendere una corretta gestione della biomeccanica del movimento proprio per ridimensionare il rischio di fratturarsi. Tanto più se una frattura è già avvenuta: innanzitutto perché il paziente o impara a gestire la propria colonna o non la metterà mai del tutto in sicurezza, col rischio concreto di avere fratture recidive; inoltre perché in seguito ai crolli vertebrali multipli l’assetto stesso della colonna cambia. Bisogna dunque imparare a gestire tale colonna vertebrale nella situazione contingente, ossia in presenza di specifiche fratture.
Si può guarire dai danni delle fratture vertebrali?
Dalle fratture vertebrali da fragilità non è facile tornare indietro strutturalmente, perché una vertebra crollata tende a restare una vertebra deformata. Oltre che la vertebra interessata, la frattura altera però il funzionamento meccanico della colonna tutta come suddetto. Non basta più allora insegnare al paziente solo come usare la propria colonna in modo funzionale, ossia correlato alla sua naturale biomeccanica, ma bisogna insegnargli a gestirla al netto delle deformità ormai acquisite.
Si possono recuperare le cuneizzazioni delle vertebre?
Non sempre, ma misurando in modo attento la morfologia della vertebra, dopo il crollo di ogni singolo elemento, e comprendendo in questo modo come ogni frattura (siamo in genere di fronte a fratture multiple) ha alterato la biomeccanica e dunque comprendendo il nuovo equilibrio complessivo del funzionamento della colonna, si possono individuare, con esattezza millimetrica, le azioni terapeutiche finalizzate ad una piena riabilitazione funzionale della paziente. Quindi, in un certo senso, si può guarire dalla disabilità del movimento. Il più delle volte non ristabilendo una struttura vertebrale normale, ma cambiando il modo di controllare la propria colonna, insegnando quindi al paziente ,segmento per segmento del rachide, come recuperare la fisiologia biomeccanica del movimento. Il fisiatra con l’esercizio specifico insegna al paziente appunto questo, ossia come guidare la colonna vertebrale in direzione utile a ridurre il sovraccarico conseguente ai danni da fratture, ossia come riequilibrare il carico della colonna.
Certo, per fare questo è necessario uno studio certosino, “chirurgico” potremmo dire – ma senza bisogno della chirurgia – della condizione pre-riabilitativa del paziente. Io lo definisco planning pre-riabilitativo, parafrasando un termine della prassi chirurgica appunto. Solo approntando tale planning pre-riabilitativo, possiamo poi eseguire il piano riabilitativo vero e proprio, fatto di esercizi, che il fisioterapista imposterà per tradurre le Nostre indicazioni specifiche. I risultati che si raggiungono in questo modo sono sensibilmente superiori a quanto di meglio si possa fare con una generica riabilitazione funzionale. Di conseguenza si può fare molto nella risoluzione dei deficit funzionali e nella gestione del dolore cronico con questo percorso diagnostico-terapeutico.
Come si può studiare bene la colonna?
Per capire come funziona una colonna vertebrale, sia essa “sana” o che si discosta dalla “normalita” della popolazione generale, servono una preparazione adeguata, uno studio approfondito della biomeccanica della colonna ed esami diagnostici precisi:
- una radiografia in carico, intera, in due proiezioni, frontale e laterale, comprese le teste femorali, come si fa normalmente coi bambini – e che invece purtroppo non si fa quasi mai nei pazienti adulti, tendenzialmente preferendo le radiografie segmento per segmento. Per capire l’equilibrio globale della colonna serve infatti una visione d’insieme: solo così è possibile individuare con precisione dove serve equilibrare e dunque agire in modo selettivo. (Naturalmente, è un esame possibile se le condizioni cliniche della paziente lo permettono, NdR)
- Una risonanza magnetica è invece necessaria per un’adeguata datazione delle fratture, per capire se sono recenti o se si tratta di danni ormai consolidati.
- Una tac serve per studiare ancora meglio la componente ossea del singolo elemento danneggiato e può essere indispensabile per una valutazione tridimensionale dettagliata della vertebra, ad esempio se si prende in considerazione un approccio chirurgico.
Va da sé che per porre una diagnosi corretta non basta l’imaging, neppure quello più adeguato, ma questo deve essere sempre preceduto da una visita specialistica. Il problema della radiografia standard è che, essendo segmentaria, non può rendere visibile il disequilibrio globale, ma darà sempre e solo una visione parziale.
Crolli vertebrali, cedimenti, avvallamenti, fratture… Che differenze ci sono?
Tutti questi nomi indicano semplicemente la presenza di una frattura vertebrale e ne descrivono la morfologia, cioè la forma, ossia i diversi modi in cui questa frattura si manifesta sul corpo vertebrale. Ad esempio, avvallamento significa una riduzione in altezza del corpo vertebrale, cuneizzazione indica un cedimento della parte anteriore dello stesso corpo della vertebra; si può avere inoltre un cedimento da compressione del corpo vertebrale; l’espressione frattura da scoppio infine, molto complessa, indica invece la parcellizzazione della vertebra, con i frammenti del corpo vertebrale dislocati tra loro.
La classificazione delle fratture vertebrali è un mare magnum. Oggi si è imposto il sistema di classificazione della AO Spyne, https://www.aofoundation.org/spine/clinical-library-and-tools/aospine-classification-systems, il più preciso e ormai standard di riferimento internazionale. La classificazione parte dalla causa: dividendo le fratture ad alto impatto (da trauma) le più numerose, da quelle a basso impatto (patologiche) ossia osteoporotiche o neoplastiche. Vengono poi distinti tre tipi in base al grado di gravità: A: stabili; B: instabili; C: dislocate. L’intervento chirurgico generalmente non serve nelle fratture di tipo A ed è necessario invece in quelle di tipo B e C.
Intervento chirurgico, sì o no?
C’è sempre indicazione ad una valutazione chirurgica se si ha il sospetto che la frattura possa causare delle complicanze a livello del midollo spinale. In genere, questo accade se le fratture sono instabili: i tipi B e soprattutto C - che però generalmente sono fratture da trauma. Questo può essere inoltre il caso di una frattura da fragilità, se c’è un interessamento importante della componente posteriore (detto muro posteriore) del corpo vertebrale: per capirci la faccia della vertebra che guarda verso il midollo spinale. Se c’è dunque il sospetto che la frattura possa mandare in sofferenza il midollo, potrebbe non bastare un approccio conservativo.
Ad intervenire sulla paziente sarà il chirurgo vertebrale: un neurochirurgo, se si tratta di chirurgia minore, un ortopedico Specialista nella Chirurgia Vertebrale se l’intervento deve prendere in considerazione ampi segmenti della colonna. Ogni singolo caso va valutato comunque dallo Specialista in Patologia Vertebrale, senza escludere a priori la necessità di un intervento chirurgico o conservativo.
Come si gestisce la paziente con osteoporosi gravidica?
In team col collega endocrinologo, che gestisce il problema metabolico dell’osteoporosi parallelamente alla gestione delle fratture e alla riabilitazione funzionale. Se un protocollo terapeutico clinico dell’osteoporosi gravidica non è stato messo a punto, c’è invece un protocollo per il trattamento conservativo delle fratture vertebrali e delle loro conseguenze.
Nel caso di una donna con osteoporosi gravidica, il primo step è fare la diagnosi con tempestività. Poi, si andrà a valutare e riequilibrare la colonna con l’adozione di un corsetto: il busto C35 è lo standard utilizzato, ma meglio ancora è un corsetto su misura rigido, modellato sulla paziente in relazione selettiva alla zona da correggere. Il su misura dà una correzione massima dei deficit e del disequilibrio globale con dunque soddisfazioni clinico-terapeutiche nettamente superiori rispetto al C35, anche se è lievemente più impegnativo in termini di costi e di gestione, sia da parte medica, sia per il paziente, che per i primi due mesi dovrà indossare il corsetto anche di notte, per essere protetto durante tutte le 24 ore.
Nel nostro caso, seguendo un protocollo clinico ben consolidato con l’Istituto EBaSMMAI, prescriviamo l’uso a tempo pieno del corsetto su misura per due mesi. Bisogna poi iniziare il prima possibile la riabilitazione, compatibilmente con le condizioni di salute della paziente, già dopo 48 ore dalla frattura e quindi quando ancora si indossa ovviamente il corsetto: il paziente va rimesso in carico il prima possibile, compatibilmente con le sue condizioni, mentre invece la pratica di tenere a lungo a letto il paziente con fratture vertebrali va contro a tutta l’evidenza scientifico-riabilitativa della patologia vertebrale.
Lo svezzamento dal busto deve essere graduale e seguito con cura. A meno di recidive, ma si tratta di eventualità rare, non c’è la necessità di tornare a indossare il busto una volta dismesso. Sarebbe un po’ come continuare a voler fare scuola guida quando è già stata acquisita la patente. Generalmente si riduce l’uso del corsetto di 4-6 ore al mese, e in pochi mesi il corsetto può venire dimenticato. Non vi saranno danni muscolari di alcun tipo se all’ortesi si sarà sempre affiancato l’esercizio specifico definito nel planning pre-riabilitativo.
Qual è la causa del dolore cronico?
Il dolore, quando cronicizza, è come una spia sempre accesa: con un accorto approccio fisiatrico, possiamo spegnerla.
Le fratture vertebrali multiple da fragilità, tipiche dell’osteoporosi gravidica, andranno ad alterare la meccanica della colonna come già precisato. Quindi, se io non insegno alla paziente come gestire la colonna andando in correzione nei segmenti vertebrali interessati dall’evento, con l’esercizio il più mirato possibile, quella paziente continuerà a produrre dei movimenti e delle poszioni statiche, che la portano in sovraccarico generando dolore che poi cronicizza.
Il dolore che si avverte a distanza di tempo da una frattura vertebrale, naturalmente una volta controllato il dolore della frattura in fase acuta, ha un’origine meccanica: non è solo muscolare né solo osseo, ma appunto è legato alla meccanica del movimento e della statica vertebrale. Le fratture comportano un importante disequilibrio del carico della colonna vertebrale; la colonna, poi, non riuscendo più a caricare correttamente e non avendo ancora una funzionalità muscolare specifica allenata a supportarla nella direzione il più corretta possibile, va letteralmente in stress-meccanico, perché non riesce a sostenere neppure il proprio peso contro gravità. Dall’enorme quadro di sovraccarico biomeccanico, volto semplicemente a dare una minima tenuta contro gravità della colonna vertebrale, si innesca il quadro del dolore, che cronicizza se non si instaurano nuove strategie di gestione del movimento e della statica stessa.
Ecco perché, per essere davvero efficace, la riabilitazione funzionale non è mai solo muscolare, ma anche e soprattutto neuro-cognitiva: solo così posso agire in modo definitivo sulla biomeccanica vertebrale. Il muscolo è uno stupido effettore: se lo si guida bene, farà ciò che gli si comanda. Attraverso questo percorso di riabilitazione funzionale-neuro-cognitiva , la spia del dolore si spegnerà pian piano.
Inoltre Questo approccio può dare benefici importanti anche nella gestione del dolore in acuto ovviamente, quindi quando l’evento fratturativo è appena accaduto . La flessione del tronco in acuto va assolutamente evitata, ma a parte ciò l’esercizio specifico, mirato e assolutamente commisurato alla situazione, dopo le prime 48 ore dalla frattura, deve coadiuvare la terapia del dolore, riducendo gradualmente la quantità di farmaci assunti dalla paziente.
Riabilitazione funzionale a oltranza, o si può tornare ad una vita normale?
Assolutamente si può, anzi, si deve tornare a una vita normale, e proprio questo deve essere l’obiettivo primario del fisiatra. Emanciparsi dalla riabilitazione funzionale mediata dal terapista sarà necessario, imparando a gestire sempre di più in modo autonomo la capacità di autocorreggere la propria colonna. Ecco che, però, per non perdere le acquisizioni neuro-cognitive e biomeccaniche della riabilitazione funzionale serve una cosa soprattutto: non smettere mai di fare attività fisica.
La letteratura dimostra lo schiacciante beneficio che porta l’attività fisica, costante, di base, che piaccia alla paziente, anche sulle linee di carico di tutto il nostro sistema muscolo-scheletrico (colonna dunque compresa). Anche se apparentemente può sembrare un rischio per le pregresse fratture o la condizione di osteoporosi: l’evidenza ci dice che non solo l’attività fisica protegge dal rischio fratturativo, ma ha effetti protettivi anche sulla condizione clinica di osteoporosi. Infine vi è il fattore della dieta adeguata: è noto per esempio il danno che le diete ipersodiche portano al metabolismo osseo.
Mantenersi attivi fisicamente e seguire una dieta sana: consigli utili a tutti, ma tanto più indispensabili per tutte le giovani donne, che hanno lottato con l’osteoporosi gravidica.